Chi siamo noi, i cittadini?

Traduzione di Roberto Carloni
Articolo di Saskia Sassen, Columbia University
www.saskiasassen.com

Saskia Sassen
Saskia Sassen

Ritengo che la cittadinanza sia come un accordo incompiutamente razionalizzato stipulato tra i soggetti giuridici e lo Stato. È nell’incompletezza della cittadinanza che risiede la sua possibilità di avere una vita lunga e mutevole. Esiste un ampio margine di manovra che permette di creare e ricreare la definizione di “cittadino”, anche per coloro “che non ne fanno parte”, siano essi stranieri provenienti da fuori o stranieri residenti in un dato paese.

Al giorno d’oggi, il concetto di cittadinanza è in crisi. Tuttavia, possiamo e dobbiamo attribuirgli un nuovo significato attingendo dal suo lungo passato e tenendo conto delle condizioni attuali. Si tratta di un compito arduo, poiché stiamo assistendo a massicce ristrutturazioni che vanno ben al di là delle esclusioni sociali e che spesso sfociano in espulsioni drastiche: o si è dentro o si è fuori. Chi sta ottenendo nuovi diritti nel mondo di oggi? Nel corso degli ultimi trent’anni, sono state per lo più le multinazionali. Inoltre, le nuove élite globali non devono nemmeno essere cittadini formali per andare dove vogliono e ottenere ciò che desiderano. Tuttavia noi, cittadini normali, abbiamo perso diritti, con rare eccezioni parziali. D’altra parte, nonostante molti immigrati sianocittadini provenienti da un determinato paese (circa il 3% sono apolidi), vengono trattati come se fossero una comunità di alieni senza diritti. Inoltre, numerosi migranti vengono espulsi dai loro paesi d’origine, in particolare a causa del land grabbing perpetrato da imprese statunitensi, europee e asiatiche, proprio quei paesi nelle cui grinfie finiscono spesso i migranti.

In sintesi, c’è molto lavoro da fare. Infattiogni giorno vengono avviate nuove iniziative: sappiamo che dovremo lottare per rendere il mondo un posto migliore.Guardando alla storia dell’Occidente, spesso è stato grazie agli outsiders se siamo riusciti a estendere i nostri diritti. È stato merito loro se l’istituzione della cittadinanza è stata sottoposta a nuovi tipi di rivendicazione in diverse epoche e differenti zone geografiche – dai proletari dell’Inghilterra dei XIX secolo che richiedevano il diritto di cittadinanza, alla comunità LGBT che nel 2000 lottano per ottenere gli stessi diritti degli altri cittadini. Le donne, le minoranze, i richiedenti asilo e i migranti hanno contribuito ad estendere i diritti di tutti i cittadini su traiettorie multi-generazionali. L’operato degli impotenti ha delle tempistiche molto più lente rispetto a quello dei potenti, i quali possono afferrare e distruggere rapidamente ciò che vogliono. Eppure, le richieste di estendere l’inclusione da parte degli “outsider” rafforzano l’istituzione della cittadinanza quando vengono ascoltate. Sebbene sia raro che essi ottengano nuovi poteri nel corso di tale processo, la loro impotenza ha acquisito una dimensione più complessa, poiché hanno contribuito a fare la storia e la politica.

Oggi il significato stesso di “stato nazionale” e “appartenenza nazionale” sta diventando instabile. Entrambe le realtà neutralizzano il concetto di “nazionalità” o lo trasformano in una passione viscerale “pre-politica” (uso questo termine perché la politica è volta a superare e a mediare le pulsioni viscerali). I confini tradizionali del moderno sistema interstatale sono diventati e continuano a essere un elemento critico e distintivo per l’appartenenza nazionale, nonché un fattore chiave per il dibattito sulla migrazione, all’interno del quale non viene affrontato in maniera esauriente il tema dei confini interstatali tradizionali, con tutte le sue varianti a livello pratico e formale. Al contrario, sta diventando sempre più un mero elemento inserito nel più ampio contesto operativo della mobilità umana, il quale ha iniziato ad acquisire importanza a partire dagli anni ’80 ed è caratterizzato da una crescente divergenza tra migranti poveri e di alto livello.

Un elemento innovativo è costituito dalla proliferazione dei visti speciali che consentono alle imprese di assumere un determinato tipo di lavoratore migrante, i cosiddetti “professionisti stranieri”. Questi permessi hanno creato nuovi ostacoli per la maggior parte dei migranti.

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A. Zanoli ”A chi apartiene l’europa?” Ljubljana, Slovenia

Il negoziato GATS – Modalità 4 concede ai lavoratori, quando vengo assunti da un’azienda straniera, la trasferibilità di alcuni diritti formali che vengono riconosciuti in tutti i paesi firmatari. Ciò contribuisce a creare un soggetto privilegiato con diritti portatili. Dovremmo ispirarci a tale processo, in quanto si tratta di una possibilità che non viene presa in considerazione nella maggior parte dei dibattiti sulla migrazione. Il punto di partenza dovrebbe essere che la maggior parte dei migranti è costituita da cittadini di un determinato paese, un fatto dimenticato nel linguaggio dell’illegalità. Non esiste un essere umano “illegale”. Pertanto, la sfida consiste nel rendere trasferibili alcuni dei diritti fondamentali, come accade nel caso dei professionisti.

Al giorno d’oggi, la cittadinanza o l’appartenenza formale a uno Stato ha poco significato per la classe mobile degli ultra-ricchi, poiché non ne ha bisogno per ottenere l’accesso a territori nazionali esteri. Lo stesso vale anche per la classe stanziale dei nullatenenti, per la quale la cittadinanza sta cominciando a valere sempre meno: conferisce pochi diritti e rappresenta a malapena una piattaforma per far valere le proprie richieste. Il fatto che la xenofobia coesista con la denazionalizzazione parziale dell’appartenenza politica nel caso dei cittadini più ricchi è indicativo della qualità arbitraria delle nostre politiche? Dovremmo cercare di definire questa arbitrarietà in quanto è fonte di informazioni preziose.

In passato, le ragioni e le origini della migrazione erano differenti da quelle odierne. Tuttavia, è un dato di fatto che tutti i principali paesi europei sono stati oggetto di flussi migratori nel corso dei secoli. La demografia storica dimostra che la maggior parte degli Stati nazionali europei ha “integrato” stranieri alla popolazione autoctona. Possiamo dunque imparare qualcosa da queste storie di micro-integrazione che spesso convivono con episodi di violenza xenofoba?

L’odio e gli attacchi nei confronti degli immigrati si sono verificati in ciascuna delle principali fasi di immigrazione in tutti i paesi dell’Europa occidentale (Sassen 1999). In seguito a un’attenta indagine, nessun paese che riceve forza lavoro esce con la fedina penale pulita. I lavoratori francesi hanno ucciso i loro colleghi italiani nelle miniere di sale nel 1800 e si sono rifiutati di collaborare con i lavoratori tedeschi e belgi assunti per realizzare il piano di ricostruzione di Parigi creato da Haussmann. In entrambi i casi, hanno addotto come pretesto il fatto che gli stranieri fossero “cattolici sbagliati”.

La storia e la demografia insegnano che coloro che hanno lottato per l’integrazione hanno raggiunto i loro obiettivi nel lungo periodo, anche se solo in parte. Il “cattolico sbagliato” dell’Europa di ieri è tuttora presente, ma ha assunto nuove identità: neri, musulmani e così via. Ma ciò che il passato mette in luce è che siamo degli sciocchi se pensiamo che le differenze di fenotipo, religione e cultura siano degli ostacoli insormontabili. I lavoratori migranti belgi e tedeschi che erano visti nella Parigi del 1800 come “i cattolici sbagliati” sono i migranti africani e musulmani dell’era attuale?

L’appartenenza sociale è un processo che richiede tempo, sforzi e non conferisce necessariamente diritti formali. Tuttavia, alla fine, può portare all’attribuzione di significati più formali al concetto di appartenenza. Nelle loro espressioni migliori, le nostre diversità e il fatto di essere stranieri confluiscono in dinamiche che vedono questa complessità di appartenenza e la sua inevitabile incompletezza come elementi positivi.